Akakus

Mi chiamo Nejma, che in arabo vuol dire stella, e Lui si chiama Abdu, il sole. Portiamo la galabbia, la veste tradizionale lunga e chiara che usano i libici, ed un turbante di cotone per ripararci dal sole e dal vento del deserto, ai piedi abbiamo le ciabatte, come loro. Abbiamo lasciato i nostri abiti nella valigia e i nostri nomi in Italia, giochiamo ad essere ‘altri’ per pochi giorni, cinque giorni di deserto, di piste, di silenzio, di sabbia arancione anche sotto la luce della luna. Di notte ci allontaniamo dal campo a piedi, da soli, lontani dai nostri pochi compagni di viaggio. Il deserto di sabbia chiara e roccia scura si estende in tutte le direzioni, visibile, immobile, a volte nitido, a volte avvolto nella foschia, un paesaggio notturno sempre in mutamento. Nei nostri vestiti bianchi siamo anime perse nell’Ade, extraterrestri su Marte. Dormiamo sotto il cielo, un vento tiepido e leggero ci ricopre appena di sabbia. Di notte mi sveglio a tratti, trovo la luna sopra di me, mi dice il tempo trascorso, torno a dormire tranquilla. Prima dell’alba possiamo finalmente vedere le stelle mentre ascoltiamo la voce di Alì che prega. In questo luogo siamo stati felici.

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